L’Università italiana a Trieste.
Le ragioni di diritto e di storia.
Il secondo problema che agita la vita politica degli italiani dell’Austria (secondo, nel tempo, non per l’importanza e per il significato internazionale che è andato assumendo) è quello dell’Università italiana a Trieste.
Da quarant’anni circa, questo problema così semplice in teoria e così irto di infinite difficoltà in pratica, si trascina fra avversioni e tergiversazioni governative, fra gelosie e odii di razza, fra paure o pretesti di pericoli politici; e dopo essere stato, o essere sembrato, parecchie volte vicino alla sua logica e legittima soluzione, è sempre ritornato nel nulla, è rimasto cioè un incrollabile desiderio, un’eterna speranza di quegli ingenui o di quei tenaci cui lunghe continue disfatte non fanno perdere la fede nella fatale vittoria lontana.
Questo problema interessò e commosse, ad intervalli, anche gli italiani del regno. Alcuni anni or sono il plebiscito intellettuale della madre patria andò a confortare gli esuli che a lei guardavano e guardano con nostalgico desiderio. [1]). E dietro a questo plebiscito intellettuale era allora il plebiscito del popolo che usciva dalla sua indifferenza e sapeva vibrare all’unissono coi fratelli d’oltre confine.
Ma questo entusiasmo fu effimero. Noi siamo ritenuti, e non a torto, un popolo scettico che vede e giudica con molta esattezza, ma sente ed opera con poca costanza. Anche quando sembra che una fiammata di patriottismo ci scaldi tutti, il fuoco è di paglia e la sua luce e il suo calore si spengono e svaniscono presto.
Non mancano oggi come non sono mancate mai le dimostrazioni per Trento e Trieste, ma (senza contare che anche in altri modi più oscuri ma più fecondi si dovrebbe pensare a quelle sorelle lontane) furono e sono esplosioni dell’anima giovanile che sui banchi dell’Università non ha ancor perduto la fede nell’ideale. La maggior parte degli uomini gravi, coloro che si intitolano ben pensanti e che hanno lasciato ogni poesia sulla scettica via dell’esperienza, o le condannano, o le guardano con l’affettuosa indulgenza paterna che sorride, senza più comprenderli, agli impeti del bambino.
Troppi altri problemi — si dice — incombono nell’ora presente, perchè la gente pratica e seria perda il suo tempo ad accarezzare le aspirazioni nazionali di un piccolo nucleo di italiani ormai perduti entro la variopinta falange dei popoli che costituiscono un grande impero.
Troppe meschine ambizioni personali — noi rispondiamo — si agitano oggi nella politica, perchè l’Italia possa pensare a ciò che dovrebbe essere uno dei suoi primi pensieri: la difesa della propria lingua e della propria nazionalità oltre i confini del regno.
Invano gli indifferenti — si chiamino conservatori paurosi o socialisti internazionalisti — agitano, contro la nostra fede, lo spauracchio di un risveglio dell’irredentismo, o la bandiera di un ideale vastissimo che non conosce divisioni di nazioni e di razze, e non vuol quindi si combatta per una razza o per una nazione contro altre. Ad entrambi è facile la risposta.
Diciamo a quei conservatori che tremano per il terrore di complicazioni internazionali: — Rassicuratevi: noi non facciamo dell’irredentismo come voi stessi (ora così prudenti) avete fatto nell’epoca gloriosa del patriottismo italiano: noi sappiamo che oggi il ripetere apertamente la vostra politica d’una volta sarebbe follia: noi vogliamo soltanto difendere il patrimonio sacro della nostra lingua e della nostra coltura; noi vogliamo mantenerci italiani, ribellandoci ostinatamente contro chi cerca di imbastardirci il cuore e il cervello per farci rinnegare la stirpe di cui siamo orgogliosi. La costituzione austriaca ci consente questa battaglia: e noi la combatteremo fino alla morte. Dove è il pericolo politico che voi sognate? Non è stoltezza l’additarlo, e non sarebbe vigliaccheria il tenerne conto?
Diciamo ai socialisti che ci rimproverano di troppo miope ideale perchè vogliamo rispettati i diritti della latinità, e non siamo disposti ad annegare l’anima nostra di italiani nell’olla podrida di una federazione ove son tedeschi, slavi, sloveni, croati, czeki e chi più ne ha più ne metta: — Voi, socialisti, avete ragione di sognare un avvenire di pace in cui tutti gli uomini saranno veramente fratelli: ma voi dovete riconoscere che questa pace non può essere degna e duratura se non a patto che siano rispettati i diritti di ogni nazionalità. L’esigere questo rispetto, è per gli italiani dell’Austria — come per qualunque altro popolo — un obbligo sacrosanto, giacché, come prima di essere buoni cittadini bisogna essere buoni figli, così prima di aprire l’animo al sentimento vastissimo di fraternità internazionale bisogna aver vivo e saldo il sentimento, men vasto ma più intimo, della propria nazionalità e saperlo difendere con dignitosa fermezza contro tutto e contro tutti.
I cittadini di Trieste di Trento dell’Istria della Dalmazia hanno sentito — lo diciamo con compiacenza profonda — quanta verità sia in queste nostre parole, e sulle Alpi di Trento, come in tutto il litorale che da Trieste digrada lungo l’Adriatico, i cuori degli italiani battono all’unissono — eccezion fatta per qualche piccolo cervello suggestionato dal clericalismo o dal socialismo anti-italiani — e vogliono tutti mantenere intatta da ogni infiltrazione straniera la loro lingua, conservare limpida la loro nazionalità, perpetuare gloriosa la loro coltura latina che è pure la più illustre del mondo.
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Da questa volontà, che non conobbe pause né tentennamenti, è sorta — come conseguenza prima e maggiore — la domanda di una Università italiana a Trieste.
Sono 600 i giovani italiani che annualmente — compiuta l’ottava classe di ginnasio, o, come noi diremmo, la terza liceo — si avviano in Austria agli studi superiori.
E da questo momento essi devono ufficialmente dimenticare la loro lingua materna (già così poco e così male insegnata nelle scuole secondarie classiche del Trentino e della Venezia Giulia), poiché, non esistendo in Austria insegnamento universitario italiano [2]), è giocoforza per essi disperdersi nelle Università tedesche di Graz e di Vienna, e affaticare la mente e snaturarla nell’apprendere le nozioni scientifiche attraverso un idioma che non è il loro, e che è per giunta difficilissimo.
Quegli alcuni che, non rassegnandosi a questo sacrificio, emigrano verso le Università del regno, desiderosi di studiare da italiani in lingua italiana, sono costretti a non poter mai usufruire nel loro paese della laurea che conseguiranno, giacché — come è noto — in Austria non hanno valore i diplomi rilasciati dalle Università straniere.
Che questa situazione non sia né equa né tollerabile, ognuno vede…. tranne il Governo austriaco, il quale alle domande ormai antiche, frequenti, insistenti per porvi rimedio, rispose sempre con quel verbo futuro che è la specialità di chi vuole addormentare e stancare, con lunghe promesse, l’energia di coloro che, essendo in posizione inferiore, non possono pretendere e imporre ma devono limitarsi a pregare ed a chiedere.
Già fino dal 1872 la Camera dei deputati di Vienna aveva invitato il Governo a prendere al più presto in esame la istituzione di una Università italiana nel Litorale e presentarne il corrispondente disegno di legge al Consiglio dell’ impero. Ma quel più presto non arrivava naturalmente mai. Nel 1885 le rinnovate petizioni dei Comuni italiani erano state dalla Camera rimesse al Governo per esame profondo. Ma il Governo…. non esaminava mai, né profondamente né superficialmente. Nel 1888, per la terza volta, il Parlamento raccomandava la proposta d’una Università italiana al più sollecito apprezzamento del Governo. E la raccomandazione — si capisce! — faceva l’identica fine delle precedenti. Nel 1891, la Camera voleva iscritta la spesa necessaria per la nostra Università nel conto di previsione del 1892; ma la proposta — che pur recava anche molte firme di autorevoli deputati tedeschi — cadde nel vuoto. Nel 1896 il Parlamento ripetè la sua preghiera, ma nuovamente invano.
L’ostinazione caparbia di chi negava era pari alla serena fermezza di chi chiedeva.
E a questo proposito, ci sia lecito riprodurre un brano del magnifico discorso che Attilio Hortis pronunciava alla Camera dei deputati in Vienna nella tornata del 18 marzo 1902:
«Se la storia di tutti i parlamenti e in genere la storia dell’umanità — diceva Attilio Hortis — non ci apprendesse che le idee più nobili e le cause più giuste dovettero durare lunghe e aspre lotte prima di ottenere il trionfo, agli italiani dovrebbe ripugnare di trattar qui nuovamente della Università italiana. Io risparmio loro, o signori, il tenore delle risposte che via via nella dolorosa vicenda di vani tentativi furono date a noi da’ ministri e da’ relatori. Non suonarono che amari sarcasmi al nostro diritto: e sino quelle ripulse che si ammantavano di presunti riguardi pedagogici si rivelarono ben presto frasi elusive, messe innanzi per dir di no a noi, e così poco serie ch’eran lasciate da banda con tutta facilità quando si trattava di altre nazioni e di altre provincie: larve di motivi che sfarfallarono tutte nella loro piena luce.
Quando noi italiani chiedevamo dapprima soltanto uri Accademia giuridica (e in Austria gli studenti di leggi furono un tempo il 48 per cento alle Università) ci fu opposto che tali istituti incompleti non si adattavano al sistema austriaco degli studi superiori: ma quando chiedemmo la Università italiana completa, dovemmo udire il responso che mediante i corsi paralleli di scienza del diritto in Innsbruck s’era provvisto per noi a sufficienza. Quanto siano incompleti questi corsi, è notissimo. Un’accademia giuridica ci viene negata, corsi giuridici incompleti ci vengono imposti. È serietà, è onestà codesta?
Poi ci cantavano: gli italiani in Austria hanno il maggior interesse nello apprendere le scienze in lingua tedesca e dovrebbero aver, gratitudine allo Stato che forza a ciò i loro giovani! Noi abbiamo capito subito che questa tutela e questa coazione non miravano che a soffocare la nostra nazione mediante le basse, le medie e le alte scuole tedesche.
Poi avvertivano: se gli italiani chiedono una Università appellandosi ai diritti fondamentali dello Stato, si dovrà concedere anche ad altre nazioni dell’impero. A parità di condizioni è evidentemente giusto e logico: ma ora che Università furono già istituite per altre nazioni non tedesche, è indubitatamente logico e giusto che non se ne frodi più oltre la nazione italiana.»
Queste ultime parole che abbiamo riferite dal discorso dell’Hortis dicono limpidamente il nostro diritto e pongono la questione nei suoi termini di inconfutabile legittimità.
Ma coloro che cercano ambigue vie per combatterci, non avendo il coraggio leale di esporre l’unico motivo sincero che è l’odio politico, vanno racimolando su pei campi dell’opportunità, della statistica e…. del decoro scientifico poveri falsi argomenti per osteggiare la creazione di un’Università italiana completa a Trieste.
Dicon costoro: un’Università con soli 600 studenti sarebbe una misera e quasi inutile istituzione.
A questa obbiezione rispondiamo anzitutto con le parole di Graziadio Ascoli: «Una volta riunite tutte le Facoltà in Trieste, i seicento studenti non solo formeranno una corporazione omogenea ed organica, ma diventeranno subito non meno e anzi più di mille. Una grande città, sia pur commerciale, in cui abbia sede un vero Ateneo, gli dà sempre un molto numeroso contingente di frequentatori, senza dire che l’Ateneo triestino chiamerebbe a sé la gioventù italiana e semi-italiana dell’Egitto e del Levante»[3].
Rispondiamo in secondo luogo che — dato anche e non concesso che l’Università di Trieste non superasse i 600 studenti — non sarebbe questa un’eccezione nella storia degli Istituti superiori.
Delle 179 Università del mondo, più di 35 non raggiungono la cifra di 500 studenti.
In Austria, l’Università di Innsbruck ha 600 studenti e quella di Czernowitz 320 [4].
Rispondiamo infine — argomento assai più importante, poiché non di sole cifre, ma di fatti eloquenti — che le Università minori anziché da avere a sdegno e da combattersi, sono da incoraggiarsi come quelle che meglio rispondono ai bisogni della coltura e al progresso della civiltà.
E anche qui lasciamo la parola ad Attilio Hortis che meglio e più sinteticamente ‘d’ogni altro ha riassunto il parere dei dotti in proposito:
«In un libro pubblicato per incarico del Ministero dell’istruzione austriaco si legge: La esperienza fatta in Germania e dappertutto ci ammaestra che le Università minori approdano meglio alle scienze. L’Haeckel conferma: I resultati scientifici di un istituto stanno in ragione inversa della sua grandezza, e il valore intrinseco delle opere pubblicate, in ragione inversa dello sviluppo esterno della istituzione. Il Mayer avverte: A chi guardi la cosa superficialmente deve parere strano che non già le più grandi e le più rinomate Università, ma le più piccole nelle provincie abbiano i migliori ìstituti. S’inganna dunque chi presuppone che le piccole Università si rappicciniscano a semenzai di praticon : all’incontro s’è osservato proprio questo, che la parte teorica delle scienze è negletta appunto dagli studenti delle Università maggiori.
Da Kònisberg Kant ha ridestato l’umanità a nuova filosofia, da Halle fu proclamata la libertà dell’ insegnamento: sublimi idee splendettero sul mondo da umili Università.
Ruggiero Bonghi osservava: «Il professore dev’essere più vicino allo studente, e dove prima potevasi credere che la lezione orale bastasse a un uditorio di 100 studenti, oggi col sistema dell’insegnamento mediante esperimenti fatti non soltanto dal professore davanti agli scolari ma ripetuti dalla scolaresca stessa, un professore non basta più che a 50 studenti. Quindi la questione delle Università maggiori o minori è tutta militata nei suoi criterii, nelle sue conseguenze, nelle considerazioni che chiede e nelle soluzioni che esige.»
«In Francia e in Italia fu trattato a fondo il problema delle grandi e delle piccole Università. In tutti e due gli Stati si risolvette di mantenere e completare al possibile le minori. I dibattiti del Parlamento francese hanno sparso molta luce sopra un lato che per noi è di grande rilievo. In una relazione presentata al Senato si afferma: essere socialmente e politicamente utile di mantenere alle provincie un numero tale di giovani che rafforzi la vita provinciale: «ce serait de la décentralisation et de la meilleure.»
Il concetto della decentralizzazione scientifica fu chiaramente espresso da Jules Ferry, che disse: «Noi vogliamo Università che «non si rassomiglino in ogni parte, ma che «rispondano in ciascuna regione, non solo ai « bisogni, ma anche alle idee del luogo ». Ecco un selfgovernment che fino la Francia, così centralista, loda ed accoglie. La Revue Universitaire dice infatti testualmente che lo Stato per tal modo «ouvre la porte à une vraie liberté, il donne l’exemple d’une décentralisation intelligente, et il laisse enfin à l’initiative individuelle, dont on parle tant et dont au fond tant de gens ont si grande peur, l’occasion de se manifester».
E dopo una così chiara sintesi dei vantaggi delle Università minori, cui si potrebbe aggiungere che, in esse, professori e studenti sono costretti, per il più immediato controllo, a fare il proprio dovere, e non è quindi possibile, come nelle grandi, lo scandalo di professori che non facciano mai lezioni, e di studenti che non le frequentino, a noi non resta che trarre una logica e semplice conclusione: — «anche dal lato scientifico l’Università italiana di Trieste sarebbe, oltreché un dovere, un vantaggio dell’Austria».
Un dovere, aggiungiamo, non solo scientifico, ma anche politico-geografico, giacché l’Austria ha poche Università e mal distribuite nelle sue provincie. L’Austria ha un’ Università ogni tre milioni e mezzo di abitanti, proporzione meschina per la diffusione della coltura: e la ubicazione di queste poche Università è tale che la maggioranza degli studenti deve percorrere troppe centinaia di chilometri per recarvisi. I signori della Carniola si lagnano — e non a torto che i loro figli debbano perdere molte ore di ferrovia per recarsi a Graz. Che dovrebbero dire gli italiani, che dalle coste estreme dell’Istria e della Dalmazia devono far viaggiare i loro giovani fino ad Innsbruck ?
Ma quell’avversità politica accennata più sopra, e che — non avendo l’ardire di manifestarsi qual’è — cerca ovunque sottilmente pretesti per negarci ciò che è nostro diritto, insiste nella sua battaglia contro l’Università di Trieste, e dopo aver detto che questa Università avrebbe pochi studenti, s’azzarda ad affermare che — ad ogni modo — non avrebbe un sufficiente numero di professori.
Ah veramente, di tutto si può forse accusare la razza latina, non certo di mancare di rappresentanti autorevoli e geniali della scienza e dell’arte!
Ma poiché ai nemici le prove della storia non bastano, diamo loro, in risposta, fatti e cifre recenti.
Attualmente, nelle scuole superiori del regno d’Italia insegnano varie discipline 24 professori nati nelle provincie italiane soggette all’Austria; e ad essi non si può far colpa se non possono insegnare in Austria come fanno i loro 15 colleghi italiani delle stesse provincie che hanno cattedre nelle Università dell’impero.
«Io penso — e facciamo nostre anche una volta le belle parole dell’Hortis — che questo numero di 39 nostri professori e la loro qualità (alcuni hanno fama mondiale) fanno buona testimonianza della maturità e del potere intellettuale del nostro piccolo ritaglio di popolo, come hanno voluto chiamarci». Da questo ritaglio di popolo sono usciti, per non parlare che dei morti relativamente recenti, Antonio Rosmini e Niccolò Tommaseo, Giovanni Prati e Antonio Gazzoletti, Andrea Maffei e Giuseppe Revere, Giovanni Canestrini e Giovanni Segantini. Ed oggi, oltre ai professori ufficiali, non sarebbe difficile citar fra i viventi un numero considerevole d’uomini nati nelle nostre provincie che sarebbero degni di salire una cattedra della vagheggiata Università italiana.
Del resto, forse che i colleghi del regno dispregerebbero l’invito che loro venisse da Trieste? Fu uno scrittore tedesco ad affermare che nessun ministro austriaco dell’istruzione, a qualunque nazione e a qualunque partito appartenga, oserebbe rinunciare a chiamar professori dall’estero. «Questo libero scambio di forze è condizione vitale per le Università, cui l’esclusivismo ha sempre nociuto».
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Dunque: gli studenti e i professori ci sono, ed attendono. Quale altro ostacolo può sognare la riluttanza governativa?
Ne sogna — finalmente! — uno più sincero degli altri: un ostacolo politico. E dice: le città marittime hanno un terreno bollente, quindi pericoloso.
Noi non contrastiamo l’affermazion : noi ci limitiamo a constatare che quasi tutte le grandi città a mare hanno, da secoli, un’Università, e che nel Mediterraneo non una delle città maggiori manca di una Università[5]. Trieste sola non l’ha, e non dipende da lei.
Le paure che agitano il Governo austriaco non hanno mai trattenuto altri Governi. E le Università delle città marittime prosperano rigogliose, da Upsala ad Edimburgo, da Glasgow a Aberdeen, da Dublino ad Amsterdam, da Kiel a Marsiglia, da Bordeaux a Barcellona, da Caen a Valenza, da Genova, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Cagliari ad Atene, Costantinopoli, Odessa.
Perché Trieste — unica — dovrebbe presentare un’incompatibilità che, stranamente, le verrebbe dal suo mare azzurro e dal suo porto folto di fumaioli e di vele?
Essa è — per consenso unanime — la città più atta ad accogliere l’Università italiana. Tutte le altre città nostre soggette all’Austria lo hanno riconosciuto con doverosa spontaneità. «Trieste è la città più popolosa e più ricca e, relativamente, anche la più centrale, sul territorio nostro nazionale: essa possiede già gli istituti necessari perché una Università completa possa sorgere e vivere: ricchi musei, una biblioteca con oltre 100 000 volumi, tre ospedali, numerose Società letterarie e scientifiche»[6].
Se l’Austria dunque vorrà decidersi ad accordare un’Università italiana, non potrà che accordarla a Trieste. Lo esige non solo la volontà concorde degli italiani soggetti all’impero, ma anche la necessità storica e geografica e oltretutto il più elementare criterio di buon senso politico.
Finora infatti noi abbiamo accennato agli argomenti che ci salivano dal cuore come italiani: vogliamo accennare adesso anche a quelli che il nostro cervello onestamente ci suggerisce, mettendoci dal punto di vista degli austriaci.
Si crede — o si finge di credere — che non volendo noi frequentare Università tedesche, siamo determinati da un’avversione verso la lingua tedesca.
È un errore o un pretesto. Noi stimiamo — come è dovere — un linguaggio che è forse il più filosofico dei linguaggi moderni, e siamo, per nostra fortuna, abbastanza colti e abbastanza imparziali per riconoscere il bene immenso che alla coltura mondiale fecero la scienza e l’arte tedesca. E di questa stima e di questa imparzialità furono prove ufficiali il disegno di legge del ministro dell’Istruzione pubblica Ferdinando Martini che voleva nelle scuole italiane l’insegnamento della lingua tedesca, e i disegni di legge dei ministri Codronchi e Gallo. Ma «altro è apprezzare e voler imparare la lingua tedesca, altro essere forzati di apprendere le scienze in tedesco».
La coazione forzata come spoetizza ogni sentimento e diminuisce ogni divertimento, così uccide in germe ogni desiderio di coltura e rende antipatico quello studio che altrimenti si seguirebbe con spontaneo piacere.
Non siamo dunque noi italiani, ma siete voi tedeschi che fate danno alla vostra lingua, imponendocela come mezzo assolutamente necessario per giungere a una coltura superiore. Fate danno alla vostra lingua, e anche — ciò che è più grave — alla scienza.
Il Billroth confessava: quando io vedo quale sforzo facciano gli studenti in medicina ad esprimersi alla meno peggio nella lingua tedesca a loro estranea, io li soccorro qua e là con qualche parola e non mi sento di farli cadere agli esami: per questo sono in voce di esaminatore indulgente. E riferendo queste parole rivelatrici, l’Hortis, in un bell’impeto di severità orgogliosa, così le commentava: «Ma noi, noi italiani non desideriamo a’ nostri giovani gli esaminatori troppo corrivi, i quali non farebbero che abbassarne il livello scientifico. Si rifletta alla franchezza dell’insigne chirurgo, e si ripensi agli effetti dell’insano costringimento e della conseguente indulgenza per i professori, per i giovani e «last not least» per i futuri clienti».
Ma v’è di più e…. di peggio. Non solo il costringere gli italiani a frequentare le Università tedesche è, oltreché un oltraggio alla loro nazionalità, un attentato contro la serietà e la doverosa severità degli studi, ma è altresì un inutile insulto e una pericolosa provocazione agli studenti tedeschi, i quali vogliono essere soli, o per lo meno vogliono essere padroni nelle loro Università e mal sopportano che giovani d’altre razze vengano a snaturarne il carattere nazionale.
Noi deploriamo e protestiamo contro i disordini cronici delle Università di Innsbruck e di Vienna: noi diciamo ad alta voce che il contegno violento degli studenti tedeschi è un contegno non degno di uomini civili, di oppressori e non di studenti: ma poiché non ci accieca odio di razza, noi riconosciamo che di tali disordini e di tali tumulti il responsabile primo è il Governo: il Governo austriaco che, non volendo concedere agli italiani quell’università in terra italiana cui hanno diritto, li costringe ad andare — ospiti mal visti e mal tollerati — nelle Università tedesche, ove i tedeschi — e non a torto — vorrebbero essere soli.
Avviene in questo caso ciò che accade in molti altri della vita sociale. I giovani sentono, per quell’intuizione felice ch’essi possiedono, ciò che i Governi non scorgono o non vogliono scorgere. Sentono i giovani tedeschi che essi hanno diritto a non essere turbati dall’irruzione di un elemento straniero sul loro territorio nazionale; sentono i giovani italiani che essi hanno diritto ad aver un’Università propria; ma poiché non è loro concessa, pretendono — con piena ragione — d’essere rispettati in quella qualunque Università straniera dove sono costretti ad iscriversi.
E dal cozzo di questi due sentimenti scoppia fatale il dissidio irrimediabile di due razze, che potrebbero andare d’accordo se fossero tenute divise e che s’insultano a vicenda soltanto perchè la miopia governativa le obbliga a vivere insieme.
La parola di pace che spegnerebbe il fuoco di tanta guerra, la soluzione unica e semplice di tanto grave problema, consiste nel concedere l’Università italiana completa a Trieste.
Gli studenti italiani — e con essi tutti gli italiani dell’Austria — non hanno velleità di conquiste illegittime. Lasciano queste violenze politiche — avanzo d’altri tempi — ai tedeschi. Essi respingono i metodi del Governo austriaco che cerca spostare continuamente e nel modo più artificiale i confini storici delle lingue e delle razze, non tanto perché questi metodi minacciano l’integrità nazionale del Trentino e della Venezia Giulia (sarebbe queste un sentimento egoistico), quanto perchè questi metodi sono contro natura e contro giustizia.
E quindi se ad Innsbruck, a Graz, a Vienna pretendono d’essere rispettati personalmente e di veder rispettata nell’Università la lingua italiana come la lingua tedesca, non è già perchè vogliano tentare un’iniezione di latinità nel duro corpo teutonico (le fatiche d’Ercole non sono più di questi tempi), ma è semplicemente ed unicamente per affermare, da un lato, il loro diritto che è pari a Innsbruck a Graz a Vienna a quello degli studenti tedeschi, e per dimostrare dall’altro lato coll’argomento inoppugnabile dei fatti l’impossibilità della loro esistenza in un’Università tedesca in terra tedesca, e quindi la assoluta imprescindibile necessità di ottenere un’Università italiana in terra italiana.
Gli è appunto per raggiungere questo fine che nell’autunno del 1903 gli studenti Trentini vollero organizzare ad Innsbruck quell’Università libera italiana, che ségno dolorosamente ma non inutilmente la seconda fase della loro lunga battaglia.
[1] Vedasi il volume: Per l’Università italiana a Trieste. — Inchiesta promossa dal Circolo Accademico italiano di Innsbruck e pubblicata a cura del Circolo Trentino di Roma —, Milano, Treves, 1903.
[2] Esistevano le meschine e irrisorie cattedre giuridiche parallele di Innsbruck, ma dal 1904 furono soppresse.
[3] Vedasi Inchiesta citata.
[4] Quindi due delle otto Università austriache toccano appena o non raggiungono la cifra di 600 studenti che sembra troppo misera per un’Università italiana!! I confronti statistici colle altre Università dell’Impero dimostrano inoltre il pieno diritto degli italiani a chiedere un’Università completa (cioè colle tre Facoltà: legale, medica e letterario-scientifica). I nostri 600 studenti infatti si suddividono così: 260-280 legge; 170-150 medicina; 15o scienze e lettere. È la proporzione identica in cui si suddividono gli studenti della Università di Innsbruck che ha pure tre Facoltà! E a Leopoli gli studenti di medicina sono soltanto 141 e quelli di lettere 160; e a Cracovia gli studenti di medicina sono 133, e a Czernovitz, quelli di lettere 29! E poi si dice che noi pretendiamo troppo!
[5] Unica eccezione Venezia – eccezione spiegata dalla vicinanza dell’Università di Padova, tenuta tanto cara dalla Repubblica.
[6] Attilio Hortis, Discorso citato.