Risveglio Italico
Dieci o quindici anni fa era di moda dir male dell’Italia e proclamare la decadenza delle nazioni latine. Noi non avevamo — allora — fiducia in noi stessi. La depressione economica del paese, l’abulia dei governanti, gli insuccessi della politica coloniale, davano alla nostra psicologia una malinconica tinta di umiltà rassegnata: e i sociologi rafforzavano questa eunuca opinione diffusa tra il pubblico, additando l’esempio di altri popoli che salivano sulla via del progresso e diffondevano pel mondo le loro energie, mentre noi, non solo ci rinchiudevamo nel cerchio dei nostri incompleti confini, ma non sapevamo nemmeno esser vivi e vitali in casa nostra.
E poiché, quasi contemporaneamente, l’Italia aveva avuto la vergogna di Adua, la Spagna era stata vinta dagli Stati Uniti, e la Francia si dibatteva nella crisi epilettica dell’affare Dreyfus, i più (ed io mi accuso, fra questi) andavano costruendo su tali coincidenze una teoria semplicista di razze vecchie e di razze giovani, le ime sacrate al tramonto, le altre alla gloria, — e naturalmente la nostra era non solo vecchia, ma decrepita, — e si suonava a stormo per il prossimo funerale della razza latina, mentre squillavano le fanfare della vittoriosa e invadente razza germanica. La luce, si diceva, viene dal nord. Noi, popoli meridionali, ci condannavamo a ritornare fatalmente nell’ombra.
Questa sconsolata sfiducia nei nostri destini, questa debolezza di fibra nazionale dipendeva, oltre che dalle nostre fiacche condizioni politico-sociali, anche da una causa storica, che potrebbe definirsi la legge del ritmo. Al periodo fervido di fede di entusiasmi e di opere, che ci aveva dato una patria, doveva necessariamente succedere un periodo di sconforto di scetticismo e di inerzia, come in ogni organismo, dopo uno sforzo di intenso lavoro, succede un periodo di riposo, in cui par che si allenti e si abbandoni non solo la forza del braccio, ma l’agilità del cervello.
Persuadeva altresì a questo quietismo — e vi cooperava — il diffondersi delle teorie socialiste e dell’utopia pacifista. L’orgoglio nazionale sfumava e si annientava nel sogno di una fraternità internazionale: e anche uomini meno ingenui del buon Teodoro Moneta, uomini del valore di Luigi Luzzatti insegnavano, senza arrossir di vergogna, che l’unico ideale degli italiani doveva essere la pace, anche a costo di molte viltà.
Era un vangelo di rassegnazione, che si predicava da tutti i pulpiti a un popolo già poco fiducioso in sè stesso. Il Governo e i partiti estremi erano inconsciamente d’accordo nel frenare ogni impeto di dignità, nel cloroformizzare ogni tentativo di energia nazionale. L’Italia doveva assistere, umile e timida, a quel che facevano gli altri: essa non doveva far nulla, essa doveva dimenticare il passato, non preoccuparsi dell’avvenire, e imitare, semplicemente, la Svizzera, l’allegro, tranquillo e felice paese d’albergatori.
***
Questa filosofia suicida non poteva non suscitare una reazione. Si addormenta, ma non si spegne un paese che si chiama l’Italia. E a poco a poco il paese si è svegliato.
Le rifiorenti condizioni economiche, permettendogli di levare gli occhi su dalla quotidiana preoccupazione dell’interesse materiale, gli insegnarono a guardare più in alto e più lontano: e il paese vide e sentì che la sua fortuna, le ragioni stesse della sua vita erano anche e sopra tutto in quei problemi internazionali, che la miopia settaria dei partiti o la miseria intellettuale dei governanti aveva trascurato sinora.
E poiché ogni movimento dell’opinione pubblica si accentra e si simbolizza, se posso dir così, nella parola o nel gesto di alcuni uomini che ne divengono gli esponenti di fronte alla nazione, io credo che questo risveglio italico — da tempo latente nell’anima collettiva — si sia affermato in tre momenti della nostra recente vita parlamentare: nell’ultimo discorso di Alessandro Fortis, nel volo di Barzilai, nel discorso di Enrico Ferri.
Quando Alessandro Fortis, nel dicembre 1908 pronunziò quel discorso che infiammò d’entusiasmo tutta la Camera, la Stampa scrisse in una breve linea un commento scultorio. Alludendo a Tittoni, questo giornale stampò: un uomo è caduto, ma si è levala l’Italia. E veramente in quell’attimo era la nazione intera che per mezzo dei suoi rappresentanti gridava, contro chi l’aveva esposta al ridicolo, la sua volontà di essere forte e rispettata nel mondo.
Se un atroce destino non avesse col disastro di Messina e di Reggio annichilito d’un tratto, come con un colpo di piazza, ogni energia nazionale, ben altre forse sarebbero state le conseguenze politiche di quel discorso.
Più tardi, quando vennero in discussione alla Camera le nuove spese militari, l’onorevole Barzilai ebbe il merito di spezzare una tradizione di equivoci che oscurava da tempo la lealtà di una parte dell’Estrema Sinistra. Il patriottismo non è sincero se non è, oltre che di parole, di fatti. E voler l’Italia dignitosa e fiera, senza darle i mezzi per esserlo, era una triste prerogativa di alcuni uomini politici che non si sa se fossero più ingenui o più gesuiti. L’onorevole Barzilai, nel dare il suo voto favorevole alle spese militari non fu seguito da tutti i suoi compagni di fede; ma il suo leale coraggio aveva, oltre il valore d’un esempio, anche il valore d’uri sintomo. Esso indicava la via per la quale si sarebbe messo fra non molto tutto il suo partito. I mediocri adoperano sempre qualche tempo per seguire il loro capo.
Così, quando Enrico Ferri, reduce dall’America, fece la sua rentrée parlamentare con un discorso che parve imperialista, ed era semplicemente ma nobilmente italiano, un altro equivoco fu tolto dalla nostra torbida e mediocre vita politica. E gli imparziali riconobbero che se vi sono ancora dei socialisti bizantini che discutono per mesi sul loro giornale se esista o non esista la patria, e concludono (poveretti, un po’ tardi!) che essa esiste e che bisogna armarla, ma poi vengono alla Camera a votare contro (o logica partigiana!) alle spese militari, — vi sono però anche dei socialisti di maggior ingegno e di più vivo senso d’opportunità che comprendono come il destino del nostro paese sia legato indissolubilmente all’influenza che esso saprà esercitare oltre i monti e oltre i mari nel mondo.
Anche Enrico Ferri non ebbe quel giorno l’adesione dei suoi correligionarii — le individualità superiori sono sempre sole quando tracciano al proprio partito una via nuova più ampia e più diritta di quella fino allora battuta — ma egli dimostrò che il socialismo italiano non s’irrigidiva più in alcuni antiquati preconcetti antipatriottici, e sapeva anzi, come il socialismo tedesco, conciliare l’amore alla patria con l’amore alla umanità.
Per vie diverse — dunque — da uomini d’ordine e da cosiddetti sovversivi, da liberali di sinistra, da repubblicani, da socialisti, con l’opportunismo geniale di Alessandro Forlis, con l’entusiasmo irredento di Salvatore Barzilai, con l’eloquenza sempre abile e sempre fascinatrice di Enrico Ferri, si è determinata alla Camera una corrente la quale, appunto perché formata da varie sorgenti, rispecchiava un sentimento, un bisogno non di questo o quel partito, ma di tutti gli italiani: era l’impeto di una volontà nazionale, che ancor compressa e mal guidata, si sprigionava senz’ordine e senza logica, tra le incertezze di molti, le esagerazioni di alcuni, le reticenze di altri; ognuno dava all’idea la particolare tonalità del suo temperamento, e modulava la voce secondo il ritmo imposto dal suo partito, ma il leit-motif era uno solo: finalmente da tutte le bocche, da tutti i cuori usciva il grido: noi vogliamo l’Italia forte, rispettata, temuta.
Questa volontà, questa coscienza, era il terreno fecondo su cui doveva sorgere e crescere quella novissima pianta della vita politica italiana che si chiama il nazionalismo.
agosto 1909.
Nazionalismo Italiano e nazionalismo francese.
In politica, i nomi sorgono, come i programmi, prima dei partiti che vorrebbero rappresentare. Sono titoli di volumi non ancora scritti. E diceva giustamente uno dei più fervidi e più geniali nazionalisti, Gualtiero Castellini, che il nazionalismo è oggi, più che un partito, una tendenza e una speranza. È una tendenza perchè riflette uno stato d’animo generale: è una speranza, perchè interpreti di questo stato d’animo sono i giovani: non è un partito, perché le molte e varie voci che lo affermano non hanno ancora trovato la fusione e l’accordo. Le energie esistono, ma sparse: sembra che attendano qualcosa o qualcuno che, riunendole, dia loro la coesione del fascio di verghe che non si può spezzare.
Per raggiungere questo ideale le difficoltà sono molte. Prima fra tutte, forse, quella che dipende dalla scelta del nome. Quando si dice nazionalismo il pensiero corre — involontariamente — al nazionalismo francese. E i più, credendo che il nazionalismo italiano non sia che una copia di quello di Francia, ne risentono un’impressione di antipatia.
Ora, è necessario dissipar questo equivoco.
In Francia, per ragioni peculiari allo stato politico attuale della Repubblica, la parola nazionalismo è sinonimo di partito retrogrado, clericale, antisemita, legittimista. I nazionalisti d’oltre Cenisio hanno mescolato e intorbidato la purezza del loro sentimento patriottico con tutte le passioni malsane o mediocri della politica parlamentare : non hanno saputo, cioè, tenere l’idea più alta dei partiti: l’hanno rimpicciolita, facendola servire a scopi di rivalità interne, combattendo per lo Stalo Maggiore contro Dreyfus, per la Chiesa contro la libertà di pensiero, per una dinastia contro la repubblica.
Lo stesso Maurizio Barrès che è, se non forse la personalità politica più influente, certo l’ingegno maggiore del nazionalismo francese, appare a noi sotto due luci diverse, secondo che consideriamo l’opera sua battagliera di deputato e di uomo politico, o l’opera sua geniale di romanziere e di filosofo. La prima — che si riassume nei suoi discorsi alla Camera, nei suoi articoli e in alcuni suoi libri violenti di polemica, come Scènes et doctrines du nationalisme — ci mostra un temperamento tutto fiele che par goda nell’accanirsi contro le persone, e par voglia incanagliarsi nelle questioni più misere e più velenose, dimenticando la lotta leale per i principi. La seconda invece, che si riassume nei suoi volumi più belli, in quella magnifica serie di romanzi intitolata Les bastions de l’Est, rivela l’anima grande e serena di un francese che, levandosi su dalle oscure polemiche della vita politica quotidiana, guarda il problema della sua razza e della sua nazione con un amore che è orgoglio ed è fede, e a questo amore consacra le sue migliori energie.
Dualità dolorosa codesta, che noi stranieri abbiamo il diritto di constatare e di deplorare, ma della quale abbiamo anche il dovere di non tener conto, quando studiano il nazionalismo, non come una pianta indigena del suolo francese, ma come un fenomeno che ha ovunque le sue radici, perche è ovunque l’indice dell’orgoglio e della forza d’un popolo.
In Italia non è possibile che il nazionalismo degeneri, passando dall’idea alla realtà, dalla teoria alla pratica, come è degenerato in Francia. E se noi avessimo la fortuna di veder sorgere oggi fra noi un Maurizio Barrès che si facesse nei romanzi l’araldo del patriottismo, noi non avremmo certo la vergogna di vederlo abbassarsi nella vita politica alla difesa di tutte le cause reazionarie. Le nostre condizioni sociali non lo consentirebbero.
Anzitutto, in Italia non ci sono dinastie che contrastino il potere a chi lo regge attualmente, e non esiste quindi nemmeno l’ombra di un partito legittimista. In secondo luogo, noi non abbiamo avuto — e affermo anzi che fra noi non sarebbe stato possibile — uno scandalo così lurido e così lungo come l’aifare Dreyfus, che ha malauguratamente schierato alla difesa di alcuni falsari, troppi ingenui, i quali credevano difendere l’esercito, e invece lo disorganizzavano e lo umiliavano, facendolo responsabile dei delitti di pochi. Infine, il partito clericale in Italia non potrebbe mai essere un partito nazionalista, per la semplice ragione che i clericali italiani combatterebbero, anziché aiutare, lo sforzo di coloro che vogliono grande una nazione, la quale ha tolto al Papa il poter temporale.
Se dunque il nome è identico — e non poteva esser diverso — il contenuto del nazionalismo italiano è opposto a quello del nazionalismo parlamentare francese. Maurizio Barrès resta un maestro, quando lo si consideri soltanto come filosofo e artista, quando si prendano per modelli i suoi romanzi: Au Service de l’Allemagne, o Colette Baudoche, quando si estraggano da tutti i suoi libri quei frammenti che costituiscono, riuniti, la magnifica teoria della responsabilità di ogni individuo verso la sua terra e verso i suoi morti;[1] ma diventa un avversario, un nemico, quando egli parla o scrive come deputato, quand’egli si erige — forse più per disciplina che per convinzione ;— a paladino di certe cause che noi arrossiremmo a difendere.
In Italia, quindi, il nazionalismo non è e non può essere — per fatalità storica e per ragioni di ambiente — che un partito liberale, sinceramente e audacemente liberale, che vuol risvegliare le addormentate energie nazionali, e indirizzarle tutte nei commerci, nelle industrie, nelle arti, nella scienza, nella politica, al fine unico della grandezza della patria. Il nazionalismo vuol dare, insomma, a ogni italiano quel vero patriottismo, che oggi sfuma o si frantuma in troppi regionalismi, e sostituire ai piccoli ideali che oggi riducon tutti i problemi della vita a una questione di ventre o a una questione di quieto vivere, l’ideale più difficile a raggiungersi, ma più bello, di una grande Italia. Il nazionalista è un uomo che sente l’orgoglio della sua razza e della sua civiltà latina e la vuol difendere contro gli stranieri, che tentano snaturarla. Il nazionalista ama il suo paese, non col calcolo utilitario di un arrivista, ma col bell’impeto di un giovane innamorato, e lo vuol glorioso nel mondo, con la secura coscienza di chi prevede il futuro, avendo lungamente studiato e meditato il passato.
***
Questo programma è, più che un programma, un sentimento e una fede: e gli spiriti pratici e positivi chiederanno giustamente in qual modo si possa realizzarlo.
Finora — e lo abbiamo detto — non ¡vi sono stati che dei tentativi di realizzazione per mezzo di alcuni giornali nazionalisti i quali, sorti in vari punti della penisola c combattendo con diversi metodi, hanno tuttavia espresso un solo pensiero e mirato a un unico scopo. E poiché per ricostruire bisogna prima abbattere, e poiché quando molto si ama, molto anche si odia. Fazione collettiva di tutta la giovane schiera nazionalista si è riassunta per ora nella guerra all’onorevole Tittoni. Il ministro degli esteri è stato il bersaglio, contro cui hanno tirato, concordi, tutti i soldati del nuovo partito. Era naturale, ma era ingiusto. Era naturale, perchè l’onorevole Tittoni, con la sua politica a rimorchio dell’ Austria, rappresentava l’antitesi viva di ogni dignità e di ogni orgoglio italiano: era ingiusto, perchè credo si debba precisamente alla politica di Tittoni, alla reazione cioè che essa ha suscitato in tutto il paese, se il nazionalismo è sorto, se si è affermato con tanta rapidità, se ha visto raccogliersi sotto la sua bandiera tante persone di diverso colore politico. Sarebbe dunque un’ingratitudine insistere nella guerra a Tittoni; sarebbe sopra tutto ormai una banalità e una monotonia.
Non è il Governo o un ministro che bisogna combattere e abbattere: è il paese che bisogna a poco a poco risollevare dal quietismo in cui si adagiava sinora, affinchè, mutati i suoi sentimenti, esso sappia mutare chi lo dirige.
Il nemico vero del nazionalismo è quella indifferenza del pubblico per tutti i problemi internazionali, che è, purtroppo, insegnata da uomini, i quali dovrebbero compiere ben altra propaganda. Noi crediamo invece che il nostro paese dovrebbe spingere lo sguardo anche fuori dei confini, dove è una non trascurabile parte d’Italia, e dove sono tanti italiani.
E affinchè non mi si fraintenda, spiego subito che non voglio alludere, con queste parole, soltanto agli italiani di Trento e Trieste e delle altre provincie irredente. I giovani nazionalisti finora — ed è questo un altro punto in cui sono tutti concordi — hanno fatto del nazionalismo una specie di contraltare al pangermanismo, e la testa di turco su cui hanno vibrato i più fieri colpi è stata, dopo Tittoni, l’Austria.
Dati i precedenti della nostra politica, dati i sentimenti della nostra gioventù e date anche le…. cortesie di cui ci gratificano gli alleati di oltre Brennero, la cosa non può sorprendere, perchè è logica.
Ma è bene proclamare che se il nazionalismo, in principio, doveva prendere fatalmente questa direzione, dovrà, in seguito, spogliarsi di questo carattere esclusivamente anti-austriaco, che potrebbe ingenerare nei maligni il dubbio che il nazionalismo non sia, sott’altro nome, che una rifioritura di irredentismo, e dovrà occuparsi non del solo problema italo-austriaco, e non della sola difesa della nostra nazionalità nelle province soggette alla Casa di Asburgo, ma di tutto ciò che riguarda oltre i monti e oltre i mari i figli d’Italia e gli interessi della madrepatria.
Così, estendendo la sua propaganda, e dandole un carattere di obbiettiva serenità, il nazionalismo potrà compiere più efficacemente quella che è per ora la sua funzione sociale; infondere nel Paese, con la conoscenza ampia di tutti i problemi che lo riguardano, la coscienza dei suoi doveri e l’orgoglio del posto che occupa fra le Nazioni.
Forse, quando questa propaganda avrà portato i suoi frutti, e la fede che oggi anima alcuni sarà diffusa in tutti, e non vi saranno quindi più predicatori di viltà, e la spina dorsale della Nazione si sarà raddrizzata, forse allora potrà sorgere un vero e organico partito nazionalista, con un programma ben definito, con uomini che lo incarnino e che con esso e per esso sappiano condurre la patria a più alti destini.
agosto 1909.
[1] Vedi nella Nuova Antologia, 1° gennaio 1910, il mio studio; L’amore e la morte nell’opera di Maurizio Barrès.