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Pisacane: un socialista patriottico

di Roberto Mancini

Il rapporto tra rivoluzione e socialismo è un tema poco presente nel panorama del Risorgimento: Carlo Pisacane è sicuramente il principale esponente di un certo socialismo italiano, presentato in chiave puramente rivoluzionaria. Lo spostamento dei suoi ideali politici, genericamente democratico-repubblicane a posizioni coerentemente socialiste si compì nei primi mesi del 1850, stimolato e accelerato dai frequenti contatti che il rivoluzionario napoletano poté avere a Londra con ambienti vicini ai radicali inglesi. Naturalmente va subito precisato che il socialismo di Pisacane rientra, seppur con una componente scientifica, all’interno di quel socialismo utopico ottocentesco tutto imperniato nel culto dell’uomo e del popolo. In altre parole Pisacane rimase sempre molto lontano da quel socialismo marxista legato ai principi della lotta di classe. Il suo socialismo, al contrario, rimase su un piano assolutamente nazionale, teso ad esaltare l’eroismo e il sacrificio dell’uomo che si immola in nome della collettività.

Da questo punto di vista l’uomo che aveva studiato alla Nunziatella, il famoso collegio militare di Napoli, attaccò l’idealismo misticheggiante del Mazzini perché troppo imperniato in quel rapporto terra-cielo lontano anni luce dai reali problemi del proletariato italiano. Secondo Pisacane, Mazzini non aveva saputo mettere a frutto le esperienze degli ultimi quarant’anni di storia del Paese che avevano chiaramente dimostrato che tutti i principi stranieri erano ugualmente nemici dell’Italia: il popolo italiano era troppo incancrenito nelle sue differenze storiche. Bisognava pertanto assolutamente evitare di esaltare un certo municipalismo che si era dimostrato dannoso nel suo particolarismo. Inoltre si doveva affrontare il problema sociale se si voleva davvero poter contare su un popolo affamato e privo di ogni cognizione militare.  Mazzini avrebbe dovuto ritornare ai sacri principi della Giovine Italia: combattere i governi, le sette, richiedere tutto alle masse popolari ed aggiungervi una decisa propaganda dei diritti del povero, una guerra accanita alle prevaricazioni del ricco. In altre parole il rivoluzionario partenopeo affermava con forza che non si poteva più ricorrere ad una borghesia troppo preoccupata soltanto del particolare personale. Tali temi politici si ripeteranno più volte nella storia d’Italia che avrebbe trovato non pochi ostacoli nel farsi Nazione. Posto dunque che la meta verso la quale occorreva far convergere gli sforzi doveva essere quella dell’insurrezione, Pisacane si pose il problema delle basi che avrebbe fatto scoccare la scintilla per far muovere gli strati popolari: per mettere in movimento le plebi bisognava far leva sui loro interessi materiali, sul desiderio e sul bisogno di migliorare. La rivoluzione sociale era ormai matura in Europa, e la sua vittoria era impedita soltanto dall’esistenza degli eserciti permanenti: se fossero spariti all’improvviso, ipotizzava Pisacane, il giorno dopo tutti gli Stati Europei sarebbero divenuti repubblicani.

Naturalmente il rivoluzionario napoletano non percepiva in pieno le vere difficoltà per trasformare una rivoluzione politica in una rivoluzione sociale. In ogni caso, a differenza di quello che pensava Mazzini, non si sarebbe mai potuto abbattere l’Impero Asburgico fino a quando si rimaneva legati alla concezione della guerra per bande: sarebbero serviti degli esser regolari i quali, seppur temporanei, avrebbero potuto sconfiggere le armate degli Stati Reazionari. A questo proposito Pisacane propose l’esempio di quello che avvenne nel Regno di Napoli nel 1799: La vittoria era arrivata a favore dei controrivoluzionari solamente perché il cardinale Ruffo era riuscito a convincere le masse. In ogni caso, nonostante tutte le critiche che Pisacane aveva espresso nei suoi Scritti nei confronti di Mazzini, egli in fondo rimaneva un mazziniano, convinto sulla necessità dell’azione diretta e di educare il popolo con il proprio sacrificio. I principi morali rimanevano vitali anche per Pisacane: tentare sempre anche quando l’impresa sembra disperata. L’esperienza della spedizione di Sapri può rappresentare infatti un vero e proprio testamento spirituale dell’uomo e del rivoluzionario: egli sa perfettamente che il mondo non lo capirà, ma in ogni caso dovrà essere sempre in pace con la propria coscienza. Questo suo profondo spiritualismo fa di Pisacane un socialista davvero particolare, teso all’emancipazione di un popolo che deve si migliorare la propria condizione materiale senza però dimenticare la Patria: l’unione di spiriti e di coscienze, superiore quindi alla classe che non riusciva ad emanciparsi da una condizione particolaristica legata ad un interesse soltanto individuale.

Prevedendo il suo destino e anche le facili critiche dei benpensanti e dei moderati, forti del senno del poi, Pisacane lasciò scritto nel suo Testamento, vergato il giorno prima di imbarcarsi sul bastimento Cagliari:

“Riassumo: se non riesco, dispregio profondamente l’ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza, e nel cuore di quei cari e generosi amici che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all’Italia il nostro sacrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s’immola al suo avvenire.”

Molti anni dopo, in un altro periodo della storia italiana, si riparlerà di Pisacane che tutto aveva rischiato nella sua vita, in un’impresa disperata per la salvezza della Patria. Il suo testamento spirituale, riletto molti anni dopo, ci fa capire davvero cosa fosse quel suo socialismo nazionale che voleva unire il capitale con il lavoro.

 

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