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Italo Balbo: uno squadrista in prima linea

di Giacinto Reale

Alcuni anni orsono Giordano Bruno Guerri ebbe modo di consultare, all’Archivio di Stato, la copia dattiloscritta del “Diario 1922” che Italo Balbo aveva mandato a Mussolini prima della stampa, prendendo così visione dei segni a margine e delle annotazioni che, da vecchio Direttore di giornali, il Duce aveva fatto. Nell’insieme non erano gran cosa, ispirate in massima parte a considerazioni di ordine politico da parte del Presidente del Consiglio, il quale era sempre preoccupato di mantenere l’equilibrio tra le varie anime e personalità del suo movimento e, nello stesso tempo, di non rompere la coesistenza stabilita con le Istituzioni, la Monarchia e le Forze Armate in primo luogo. Vi era, però, un lungo “taglio” suggerito da Mussolini, e che ritengo opportuno riportare in queste righe, nella convinzione che mentre i fatti di quel 1922 sono ormai abbastanza noti (anche se la  testimonianza di Balbo, diretta e di prima mano, aggiunge tasselli importanti), ciò di cui si continua a trascurare è lo “spirito” che animava, nell’intero quadriennio rivoluzionario,  le squadre fasciste in quell’anno cruciale, e  ne faceva ben altra cosa rispetto alla teppaglia in camicia nera che ci hanno descritto. Il capo ferrarese ne era un tipico esponente, e anche nel Diario abbondano gli accenni alla vena di allegria scherzosa che sempre animava le squadre, con il gusto della burla, come egli non manca di annotare: “Ormai siamo diventati molto amici col direttore (allude a Nello Quilici, che dirige “Il Resto del Carlino” a maggio, durante l’occupazione di Bologna ndr) che si diverte ai racconti delle beffe che intramezzano le azioni di forza”. Una forza che non è mai bruta, e che conosce, sempre, il rispetto per l’avversario leale e coraggioso. Il 28 di luglio, in occasione dell’occupazione di Ravenna e della “presa” (con conseguente incendio) dei locali della Confederazione provinciale delle Cooperative socialiste, Balbo sottolinea, riferendosi all’allontanamento – senza che gli sia torto un capello – dell’On. Nullo Baldini, sorpreso all’interno dei locali: “Non so concepire la lotta senza il rispetto dell’avversario”. Subito dopo la beffa ai danni del Prefetto, dal quale si fa dare gli automezzi con la scusa di allontanare dalla città le intemperanti squadre, prende il via “la colonna di fuoco”, in cui si svolge l’episodio al quale accennavo:

«Ma il più bell’episodio della spedizione è stato il primo. Eravamo appena usciti da Ravenna, e la mia automobile precedeva il grosso della colonna dei camions di qualche chilometro, allorché, sopra un lato della strada si scorge un uomo che cammina solo e zoppicando. Il giovane Rambelli caccia un grido e mi dice: “Quello è Rossi”. Siamo dunque, senza volerlo, arrivati a scoprire il feroce comunista che ha ucciso ieri mattina, secondo gli indizi generali, il mio povero camerata di Massafiscaglia Aldino Grossi? A Ravenna tutti hanno fatto il suo nome. Appena ci vede, l’uomo getta nel fosso vicino il fagotto che porta con sé e fa il disinvolto. Gli siamo sopra. Mentre due di noi lo fermano, Caretti raccoglie il pacco. Vi sono dentro due paia di calze, due fazzoletti, una camicia, due rivoltelle e quattro bombe. Lo perquisiamo. Nel portafoglio ha un vaglia di 10 mila lire della Federazione Comunista di Torino. Gli ordino di salire in macchina. Ubbidisce senza batter ciglio, e mantiene il suo atteggiamento spavaldo e silenzioso. Presso Cervia, ad un passaggio a livello, lasciamo la strada maestra, e ci inoltriamo nella pineta. Ad un certo punto, nel folto del bosco, faccio fermare la macchina e ordino all’individuo di scendere. Lo guardano alle spalle i miei camerati: “Tu sei un capo comunista” “Sì” “Sei tu che hai ucciso Aldino Grossi ieri mattina, in Borgo San Rocco, quel povero ragazzo di Massafiscaglia?” Non risponde: “Sei nelle nostre mani” “Sì” “Abbiamo il diritto di fare di te quello che vogliamo. Dobbiamo vendicare il nostro camerata” “Siete nel diritto di fare quello che volete. Siete i miei nemici, e io sono il vostro nemico” “Ti ammazziamo” “Siete nel vostro diritto” “Tu sai che io sono Balbo. Se tu e i tuoi mi aveste trovato solo, cosa avreste fatto di me?” “Ti avremmo ucciso” “Sta bene. Va contro quell’albero. La tua ora è venuta”. Rossi marcia a passo spedito verso l’albero che gli ho designato: non ha uno scatto di paura, non un gesto per invocare pietà. Un nemico feroce, ma di fegato. Lo chiamo: “Per tua regola, noi siamo dei combattenti, non degli assassini. Non siamo soliti massacrare in quattro un uomo inerme. Vattene” “Vi ringrazio, ma in un caso simile non farei altrettanto”. Sta per infilare una strada provinciale. Lo fermo: “No, non da quella parte. Vattene verso il mare”. Il delinquente obbedisce. Lontano, sulla strada provinciale si profila la colonna dei camions. Non è detto che se il Rossi fosse trovato e riconosciuto dalla massa potrebbe uscirne incolume. Non ho saputo altro di lui.»

Sui motivi del “taglio” (voluto dal Duce ed accettato dall’autore) è possibile fare solo delle supposizioni: la più probabile è che Mussolini volesse evitare, in quello che non era il memoriale di uno “squadrista qualunque”, ma il racconto di un Quadrumviro della Rivoluzione, all’epoca Ministro del Regime, una sovrabbondanza di aneddotica, e lasciarla limitata a poche righe inserite qua e là in contesti diversi. Forse egli non arrivava bene a capire come l’indugiare su episodi anche minori facesse parte del sentimento e dell’immaginario dei suoi seguaci che in camicia nera avevano conquistato, a prezzo di molte vite umane, paesi inizialmente ostili, fugando nemici apparentemente invincibili, di molti dei quali, comunque, conservavano una nostalgia che era, in realtà, nostalgia della loro giovinezza avventurosa.

Alberto Bevilacqua ha raccontato che proprio Balbo, all’apice del successo, dopo le trasvolate che lo avevano reso famoso in tutto il mondo, un giorno si recò da solo a Parma, in borghese e col viso coperto da cappello a larghe tese e  falda dell’impermeabile, e fece un giro oltretorrente, quasi a cercare, nei volti di quelli che incrociava, il ricordo delle “sue” giornate dell’agosto del ’22, delle quali rinnovellava il ricordo una scritta maldestramente  coperta dai questurini: “Balbo t’è pasè l’Atlantic mo miga la Perma“. Il 1922 è l’anno dell’affermazione fascista, che ha due protagonisti su tutti: Mussolini e Balbo. Il primo fu il vincitore politico, anche con l’intelligente scelta di restare a Milano (cosa di più avrebbe potuto fare a Montelibretti o a Perugia? Niente) da dove giocò avversari e “moderati” della sua parte; il secondo fu il vincitore militare, per l’organizzazione, lo slancio e la guida che seppe fornire all’azione delle squadre. In realtà, c’è un precedente – normalmente non valutato nel modo giusto –  nel quale l’azione del giovane “Pizzo di ferro” ebbe un’importanza fondamentale nella storia della vigilia fascista. Fu, nell’aprile del ’21, che Mussolini ebbe la palpabile sensazione che si poteva vincere e conquistare il potere, quando Balbo gli organizzò le sue giornate in Emilia: davanti a lui, a Ferrara,  su un palco che aveva per sfondo 70 bandiere rosse  sottratte  alle sedi socialcomuniste (o volontariamente consegnate) fece sfilare, il 4 di quel mese,  20.000 fascisti della provincia (gli iscritti al movimento erano 80.000 in tutta Italia), inquadrati dietro i tricolori e i gagliardetti dei fasci dei rispettivi paesi. Il futuro Duce capì così di poter contare non più solo sugli arditissimi i quali, in nuclei di qualche decina sparsi sul territorio nazionale, davano fuoco a Camere del Lavoro e facevano a pistolettate con i “rossi”, ma su masse organizzate, agli albori di una sindacalizzazione fascista che – non a caso, in un paese del ferrarese, a S. Bartolomeo in Bosco, il 28 febbraio del ’21, si era costituito il primo sindacato fascista –  dimostrava il radicamento sul territorio del suo movimento. Sono le stesse masse, orgogliosamente citate nel “Diario” quando Balbo racconta, fin nei minuti particolari organizzativi (l’ordine di portare con sé coperta, pane e viveri a secco, più una tazza per la distribuzione del caffè; gli avanguardisti che, all’ingresso in città indirizzano gli uomini ai luoghi di concentramento; gli spostamenti in bicicletta ma financo sui barconi, etc. etc.) che occupano Ferrara il 12 maggio del 1922, sotto forma de “l’esercito degli scalzi”, composto da 63.000 braccianti e operai, portandola avanti per quattro giorni, senza che “neppure un vetro delle scuole pubbliche, che sono state tutte requisite, è stato spezzato da questi rudi lavoratori dei campi”. Seguirà l’occupazione di Bologna, contro le prepotenze del prefetto Mori: di meno gli uomini (qui saranno 20.000) ma più “frizzante” il clima, con scontri continui (e anche il racconto entra anche nei dettagli, spiegandoci, per esempio di come venivano sventate le cariche di cavalleria) con le Forze dell’Ordine.

In ambedue i casi Balbo fu ideatore, organizzatore e capo, proprio perché riuniva in sé tre anime. Fu, già diciannovenne, nel 1915, “agitatore” (anzi, “capopopolo”, come lo definisce una biografia) dell’intera gioventù ferrarese, fortemente volendo e capeggiando le manifestazioni dell’interventismo cittadino. Fu, nel 1921 e 1922, organizzatore delle masse che si venivano trasferendo sotto le insegne fasciste dopo l’ubriacatura sovversiva del primo dopoguerra. Fu, soprattutto, uomo d’arme (“Soldato sono e soldataccio voglio rimanere” dirà alla Sarfatti, quando l’avventura squadrista è ormai finita da un pezzo, nel declinare l’invito  a trasformarsi in un commentatore di cose politiche), nella triplice veste di combattente coraggioso, guida ed esempio degli uomini che comandava, capo in grado di inquadrare e dirigere anche compagini numerose.

Questo è il Balbo, squadrista tra gli squadristi, che il 1° maggio incrocia nei pressi di Molinella una quarantina di socialisti che cantano, in bicicletta, “Bandiera Rossa”, salta fuori dall’autovettura che lo trasporta, come una furia insieme con gli altri tre occupanti, e comincia a cazzottarli (e, nel racconto, non fa mancare l’ironia: “Due feriti leggeri. Nel tafferuglio ebbero la peggio le biciclette”); il 29 maggio, a Bologna, dopo una colluttazione e la ferma da parte della polizia locale, rischia di passare per il carcere di S, Giovanni in Monte (dove, con allegro sfottò, gli oltre 60 ospiti squadristi lo hanno invitato ad inaugurare il “gruppo dei detenuti fascisti”) se non intervenisse miracolosamente una squadra dei suoi uomini a liberarlo; il 26 luglio, chiamato in soccorso da Muti, non esita, con altri tre commilitoni, a partire in direzione Ravenna,  facendosi  largo tra le folle dei paesi ostili “a velocità fortissima, coi moschetti in pugno, in piedi sulla macchina”; il 5 agosto, solo con 100 uomini “tra i più fidati” (a disposizione ne avrebbe più di 10.000) penetra oltretorrente e raggiunge la Camera Vecchia del Lavoro senza che nessuno lo ostacoli, salvo poi cedere di fronte alla decisa opposizione del presidio militare di guardia, obbedendo agli ordini di Mussolini, che non vuole incidenti con le Forze dell’Ordine; il 26 ottobre se ne va solo soletto a Roma ad organizzare i 250 uomini, mobilitati in gran segreto, ai quali “spetterà il compito dell’azione terroristica nel caso di una difesa ad oltranza delle forze del regime dentro la Capitale” e poi, dopo aver firmato 3 milioni di cambiali “per finanziare la rivoluzione”, se ne parte per Perugia, dove lo aspettano gli altri Quadrumviri, senza avere  in tasca nemmeno i soldi per pagarsi il biglietto del treno. Sono, questi e tanti altri, piccoli episodi, ma che gli valgono l’affetto dei suoi uomini e anche – e non è tanto frequente, in un ambiente fortemente competitivo, come quello della dirigenza fascista –  l’ammirazione dei camerati più in vista come Grandi, che dopo averlo definito “personaggio fuori tempo, una qualcosa di mezzo tra il Gavroche victorhugiano e Giovanni delle Bande Nere”, aggiungerà: «Per lui il fascismo è una compagnia di ventura, la barricata è il suo mondo e il suo clima. Balbo non è un politico, ma ineguagliabili sono il suo coraggio e il suo fascino».

Ho detto prima che il “Diario” è anche documento storico, dal quale gli studiosi non possono prescindere: la storia del movimento fascista, fatta di riunioni, incontri e anche contrasti, si intreccia con quella dell’autore e ci dà testimonianza di come veramente andarono le cose. La lettera  di Mussolini del 1° giugno che “frena” l’occupazione di Bologna, quella di Bianchi dell’8 agosto che conferma la preghiera fatta precedentemente a Balbo giunto a Parma “di evitare ogni conflitto con la truppa”, sbugiardano le versioni di comodo che vogliono i fascisti fermati dalla fermezza di Mori o dalla resistenza di Picelli, così come la nervosa reazione di Pizzo di Ferro (“Smetti dunque il broncio” gli scrive Bianchi nella citata lettera) conferma quanto importante sia stato il suo ruolo nell’organizzare e, soprattutto, nel “volere” la Marcia su Roma. Per tornare al Guerri dal quale eravamo partiti, la sua testimonianza è preziosissima:

«Dino Grandi mi ha dichiarato: “Senza Balbo non vi sarebbe stata la Marcia su Roma. A lui si deve l’organizzazione militaresca del partito ed esclusivamente sua fu l’iniziativa delle spettacolari adunate squadristiche del 1922”.»

Il racconto di tutto questo troverete nel libro che avete per le mani. A me piace segnalarvi il biglietto autografato di Mussolini qui riprodotto, che si chiude con queste parole: “Con ammirazione”. Non esiste, che si sappia, nessun altro documento contenete la stessa espressione nei confronti di chicchessia…e questo può bastare.

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